La guerra e' dichiarata di Valérie Donzelli

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locandina La guerra e' dichiarata
 
Regista: Valérie Donzelli
Titolo originale: La guerre est déclarée
Durata: 100'
Genere: Drammatico
Nazione: Francia
Rapporto:

Anno: 2011
Uscita prevista: 01 Giugno 2012 (cinema)

Attori: Valérie Donzelli, Jérémie Elkaïm, César Desseix, Gabriel Elkaïm, Brigitte Sy, Elina Löwensohn, Michèle Moretti, Philippe Laudenbach, Bastien Bouillon, Béatrice De Staël
Sceneggiatura: Valérie Donzelli, Jérémie Elkaïm

Trama, Giudizi ed Opinioni per La guerra e' dichiarata (clic qui)...In questa pagina non c'è nemmeno la trama per non fare spoiler in nessun caso.
 
Fotografia: Sébastien Bauchmann
Montaggio: Pauline Gaillard
Scenografia: Gaëlle Usandivaras
Costumi: Élizabeth Méhu
Trucco: Valérie Donzelli

Produttore: Édouard Weil
Produttore esecutivo: Serge Catoire
Produzione: Rectangle Productions
Distribuzione: Sacher Distribuzione

La recensione di Dr. Film. di La guerra e' dichiarata
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Colonna sonora / Soundtrack di La guerra e' dichiarata
Potrebbe essere disponibile sotto, nei dati aggiuntivi (clic qui).

Voci / Doppiatori italiani:
Stella Musy: Juliette
Andrea Mete: Romeo
Angelo Maggi: Prof. Sainte-rose
Serena Verdirosi: Claudia
Francesca Manicone: Alex
Lorenza Biella: Genevieve
Stefano De Sando: Philippe
Davide Perino: Nikos
Francesca Guadagno: Dott.ssa Prat
Aurora Cancian: Dott.ssa Fitoussi
Alessandra Korompay: Dott.ssa Kalifa
Alessia Amendola: Marion
Chiara Gioncardi: Sophie
Ambrogio Colombo: Dott. Harry
Oliviero Dinelli: Il Radiologo
Emanuela D'amico: Jeanne
Luigi Ferraro: Pascal
Claudia Catani: Ex-compagna Di Juliette
Stefano Crescentini: Ragazzo Dell'open Kiss
Francesco Bulckaen: Narratore
Francesca Fiorentini: Narratrice
Stefano Mondini: Voce Della Pubblicita'

Personaggi:
Valérie Donzelli: Juliette
Jérémie Elkaïm: Romeo
Frédéric Pierrot: Prof. Sainte-rose
César Desseix: Adam A 18 Mesi
Gabriel Elkaïm: Adam A 8 Anni
Brigitte Sy: Claudia
Elina Löwensohn: Alex
Michèle Moretti: Genevieve
Philippe Laudenbach: Philippe
Bastien Bouillon: Nikos
Béatrice De Staël: Dott.ssa Prat
Anne Le Ny: Dott.ssa Fitoussi
Élisabeth Dion: Dott.ssa Kalifa
Marion Lecrivain: Marion
Anne Berest: Sophie
Alain Kruger: Dott. Harry
Emmanuel Salinger: Il Radiologo
Katia Lewkowicz: Jeanne
Lucien Pages: Pascal
Marie-sonha Conde: Ex-compagna Di Juliette
Carvajal-alegria: Ragazzo Dell'open Kiss
Philippe Bassarat: Narratore
Valentine Catzéflis: Narratrice
Aa: Voce Della Pubblicita'

Informazioni e curiosità su La guerra e' dichiarata

Note dalla produzione:

NOTA DI STAMPA
L’attrice e regista Valérie Donzelli (La reine des pommes, 2009), con mano leggera e tono brillante, e con il suo ex-compagno Jérémie Elkaïm nel ruolo di co-protagonista, mette in scena la storia autentica, romantica e autobiografica di una coppia moderna. La vita mette la giovane coppia davanti ad una dura prova e i due dichiarano guerra al nemico della loro felicità, combattendo in modo tanto determinato quanto pieno d’umorismo.
Un film intenso e toccante che, con la sua vitalità e leggerezza e il suo disarmante idealismo, riesce a catturare ed incantare.
A partire dal suo acclamatissimo esordio alla Settimana della Critica di Cannes 2011 « La guerra è dichiarata » è stato molto amato sia dal pubblico che dalla critica e ha vinto molti premi internazionali.
E’ stato il candidato della Francia per l’Oscar® 2012 ed ha ricevuto sei nomination nelle maggiori categorie dei César, il più importante premio francese.


INTERVISTA A VALERIE DONZELLI
Il tema di La guerra è dichiarata è drammatico, ma il film non è né un dramma, né una commedia. Verrebbe solo voglia di dire che è un film vivo.
Sì, anch’io avrei grosse difficoltà a definire il film. Non credo che si tratti di una commedia drammatica, né di un dramma, né di un melodramma. Col senno di poi, abbiamo pensato con Jérémie Elkaïm che fosse solo un film fisico, intenso, vivo.
Inizialmente, c’era la volontà di fare un film d’azione, un western, un film di guerra. Da qui il titolo del film. Era l’idea di un gesto, dare l’impressione di aprire una porta per guardare ciò che succede dietro: l’incontro di una giovane coppia a cui succede una vera avventura, non un’avventura di cartapesta. È come se Romeo e Giulietta si fossero incontrati per superare insieme questa prova.

Il film è pervaso dall’idea del destino, ma un destino che si contribuisce a compiere, non uno che si subisce.
Sì, per me la vita è un susseguirsi di prove più o meno gravi, più o meno dolorose, da superare. E, poco a poco, si scala la montagna. Tutto ciò che non ci uccide ci rende più forti. Adamo è il frutto dell’amore di Romeo e Giulietta, perché deve capitare a lui questa malattia? Quando Romeo fa questa domanda a Giulietta, lei risponde: “Perché siamo in grado di superarla”. A questo punto, la prova assume quasi una dimensione mistica, non si tratta più di sfortuna o di ingiustizia.

La guerra è dichiarata è la storia di un bambino malato ma è innanzitutto quella di una coppia di fronte alla prova della malattia.
Quello che mi interessava era raccontare una storia d’amore, ma che passasse attraverso il filtro di quella prova. Romeo e Giulietta sono una coppia di innamorati spensierati, per nulla preparati ad affrontare la guerra – io penso che siamo una generazione di ragazzi viziati impreparati alla guerra – ma che saranno sorpresi dalla loro capacità di portarla avanti e di diventare loro malgrado degli eroi. Perché c’è una forma di eroismo nel portare avanti questa guerra. Questa prova li fa diventare una coppia, li trasforma in adulti responsabili.
Avevo anche voglia di raccontare come si viene sopraffatti dai propri figli. Adamo ha un tumore al cervello, cosa che i suoi genitori non hanno vissuto. Sono totalmente smarriti di fronte a una cosa del genere, possono solo accompagnarlo. E i genitori di Giulietta e Romeo sono a loro volta sopraffatti da ciò che vivono i propri figli, è un ingranaggio, una logica da matrioska. I nostri figli non sono un’estensione di noi stessi, sono degli individui, con il proprio vissuto. E in questo caso, il vissuto di Adamo comincia molto presto – a 18 mesi, quando questa malattia lo travolge.
La prova della malattia provocherà un rafforzamento del legame che unisce Romeo a Giulietta, ma anche la sua distruzione. Come dice la narratrice alla fine del film: “Erano distrutti ma solidi”.
La relazione amorosa si fonda su un sentimento di spensieratezza, la convinzione che nulla può distruggere l’amore, ma Romeo e Giulietta si ritrovano in una sorta di routine, l’ospedale li porta a ripiegarsi su se stessi. Affinché il figlio possa sopravvivere, qualcosa deve morire: la loro coppia. E al tempo stesso, questa prova costruisce e fortifica il loro legame, si completano alla perfezione, sono davvero un uomo e una donna, lo “yin” e lo “yang”.
Volevo mostrare una coppia di oggi, molto contemporanea. Mi piaceva che fosse lui a fare le pulizie di casa e a tenere il bambino mentre lei andava al lavoro. Sono una coppia in piena costruzione, che aspira a un ideale ma costretta a fare dei lavoretti “alimentari”. Volevo rimanere collegata alla mia generazione, parlare di ciò che conosco, di quello che vivo.
Il film è autobiografico nel senso che Jérémie e io abbiamo avuto un figlio colpito da una grave malattia, la realtà dei fatti è molto vicina a quella che abbiamo vissuto, eppure il film non è la nostra storia.

Come si fa a passare dall’emozione intima e viscerale di un dramma vissuto a un film nel quale tutti si possano identificare?
È per me l’essenza del cinema partire dal mio ombelico e fare uno zoom indietro per raccontare qualcosa di più universale: il rapporto con l’educazione, il fatto di essere genitori e di trovarsi confrontati a quanto di peggio possa succedere come avere un figlio tra la vita e la morte.
Raccontare il proprio rapporto con la vita! Jérémie descrive il fatto che siamo riusciti a trasformare questa storia personale in un film, con una formula molto bella: “Ci siamo liberati della parte brutta per tenerci solo il bello”.
La Reine des pommes è un film che parla di una rottura e l’ho fatto in un momento in cui mi sentivo depressa. La guerra è dichiarata segue lo stesso percorso: usare qualcosa che ho vissuto con tristezza per farne una cosa positiva. Il film ha avuto una lunga gestazione, dentro di me, a un certo punto, ho capito che era giunto il momento di farlo.
Stare dentro al lavoro, dentro alla lavorazione del film, permette di prendere una distanza da ciò che si è vissuto. Il cinema, è riprodurre il reale ma è anche un gioco. Tutto è costruito, nulla è vero, ma vi è una volontà di verità, di realismo.

I suoi personaggi non si piangono mai addosso.
No, non ne hanno il tempo, sono troppo presi dall’azione. Romeo e Giulietta sono una macchina da guerra a due teste! Di fronte alla terribile disgrazia che li travolge, i piccoli problemi contingenti non esistono più, hanno un solo nemico da abbattere, e un nemico molto preciso è spesso più facile da affrontare che diecimila piccoli nemici che non si riescono a individuare. Loro sanno qual è il loro obiettivo e traggono forza da questa consapevolezza, tanto più che il tumore è una malattia molto particolare, una malattia viva, come un alieno che in qualche modo fabbrichiamo noi stessi, poiché è una nostra cellula che a un certo punto comincia a impazzire senza che si sappia il perché.
Perché colpisce questa o quell’altra persona? E d’altronde, nessuno è al riparo, quando Romeo e Giulietta giungono alla conclusione che il bambino è guarito, il professore Sainte-Rose aggiusta il tiro dicendo: “Sì, significa che ha le stesse probabilità di chiunque altro di sviluppare un cancro”.
Di fronte a questa esperienza, ogni personaggio tira fuori il meglio di sé, non solo Romeo e Giulietta. La madre di Giulietta viene presentata come una persona nociva, ma anche lei acquista una sua grandezza. Avevo voglia di fare un film pieno di ideali e di speranza, è per questo che non è affatto melodrammatico.
In prima pagina del giornale che leggono in ospedale c’è questo titolo: “Il potere della risata”.

Visto lo spirito del suo cinema, immagino che non sia casuale.
Sì e no! Il giorno in cui abbiamo girato questa scena, sono andata dal giornalaio dell’ospedale e ho cercato le prime pagine che mi piacevano di più. Non ho scelto a caso, ma era un caso che quel giorno su Aujourd’hui en France ci fosse quel titolo.

Romeo e Giulietta, Adamo sono nomi che hanno un’eco universale, mitica.
All’inizio, non sapevamo come chiamare i due innamorati, io volevo solo che potessero essere subito percepiti come una coppia. Abbiamo cercato: Paul e Virginie. “Perché non Romeo e Giulietta?” mi ha detto Jérémie. “Va bene, ma allora questa cosa va mostrata così com’è”. E così, i due si incontrano a una festa, hanno un colpo di fulmine, si stupiscono di chiamarsi Romeo e Giulietta, si interrogano sul loro destino tragico insieme.
Per Adamo, è un’altra storia. Volevo un nome molto universale. Adamo è il primo uomo, c’è una forma di magia. È poi, è un nome molto dolce Adamo, non ci si stanca mai di sentirlo. È importante, perché nel film viene pronunciato spesso.

Lei ha realizzato La Reine des pommes in condizioni molto artigianali. Lavorare con un produttore affermato non la spaventava?
No, perché con Édouard Weil c’è stato un vero incontro. Io penso che il cinema abbia qualcosa di artigianale e Édouard ha lavorato con me in questa direzione. È un uomo straordinario e mi ha accompagnato lungo tutta la lavorazione del film con un unico motto: “mi fido di te”.
La Reine des pommes, l’abbiamo fatto in quattro. Lavorare così è molto impegnativo, ma ti dà anche una tale libertà che era impossibile per me ripiombare in un sistema di cinema costoso in cui si dipende dagli altri.
Quando ho incontrato Édouard Weil e gli ho raccontato il progetto, lui mi ha chiesto: “Quando vuoi girare?” “A ottobre.” “Ok, lo facciamo, in modo leggero, come per il tuo film precedente. Tranne che questa volta, non voglio che sia tu a imburrare i panini!”
Abbiamo lavorato in modo confortevole ma non è stato un film costoso, c’era una coerenza tra la produzione e lo spirito del film. La cosa bella, è che i soldi sono sempre andati nel film. L’essenziale è riunire la troupe giusta, essere ben circondati. Il cinema è una vera arte collettiva, non si fanno i film da soli.

Come ha riunito questa troupe?
Mi sono circondata di persone che conoscevo. Per la fotografia e il suono ho preso gli stessi che per
La Reine des pommes. Sébastien Buchmann come direttore della fotografia e André Rigaut come fonico. La squadra era ridotta al minimo e così ognuno svolgeva più mansioni. Quello che mi interessa è sentire che la gente non viene su un set, ma che lavora per un film. E a questo punto, vengono tutti coinvolti molto presto nella lavorazione. Non lavoro in modo tradizionale, lascio molto spazio alla spontaneità di ognuno, sin dalla preparazione.
Anche se il film non è incentrato sulla malattia di Adamo, l’ospedale è molto presente. Avevo voglia di fare un film molto ancorato alla realtà, alla verità di ciò che è un ospedale, e quindi non volevo costruire una scenografia, ma girare negli ospedali veri, senza comparse, ma con le persone che ci lavorano davvero. È stato necessario contattare gli ospedali molto tempo prima, spiegargli il progetto senza spaventarli, convincerli a darci il permesso. Se l’ospedale pubblico ci avesse detto di no, non so come avrei fatto. Ogni volta che c’era un accordo con un ospedale, Marie, la mia aiuto regista, mi diceva: “È come se avessimo i soldi del CNC”. Ed è vero. Era più importante per me dei soldi del ministero.

Come ha convinto il personale ospedaliero a sostenere il suo progetto?
Tanto per cominciare, si ricordavano benissimo di noi. Abbiamo passato molto tempo lì dentro e poi nostro figlio è guarito, e quindi se lo ricordano ancora di più. Non è stato complicato contattarli, poi ho consegnato la sceneggiatura, spiegato il progetto.
In linea di massima, nessuna scenografia è stata ritoccata, a parte l’appartamento con i lavori e la casa di Giulietta e Romeo all’inizio. Abbiamo preso i luoghi così com’erano. Adoro l’idea di costruire con la realtà, di arrangiarmi con quello che c’è.

Concretamente, come si fa a girare dentro a un ospedale in attività!
Il film è stato molto preparato. Con Sébastien, abbiamo cercato dentro all’istituto Gustave Roussy i posti in cui si poteva sfruttare al meglio la luce naturale. Sapevamo esattamente dove saremmo andati a girare, ci sono stati degli imprevisti, ma nemmeno poi tanti. E all’ospedale Necker, il piano di lavorazione veniva fatto giorno per giorno, in funzione delle emergenze. L’idea era quella di essere discreti, è per questo che abbiamo scelto di girare il film con una macchina fotografica.

Una macchina fotografica?!
Sì, abbiamo girato tutto il film con una Canon, con luce naturale. Al festival di Locarno, dove La Reine des Pommes era stato selezionato, durante una serata in cui mi annoiavo un po’, ho visto un fotografo scattare alcune foto. Ho cominciato a informarmi sulla sua macchina e lui mi ha detto: “È fantastica, fa persino le riprese in HD”. Una macchina fotografica che fa le riprese, è pazzesco perché nessuno può immaginare che stai facendo un film. Abbiamo passato tutta la serata a fare delle prove luce con quella macchina e mi sono detta: “La guerra è dichiarata, lo girerò con questa macchina fotografica super discreta”.
La regia è stata pensata in modo da sfruttare al meglio le potenzialità di questo strumento. Per esempio, siccome la messa a fuoco è molto più difficile, mentre all’inizio avevo pensato a un film con la macchina a mano, ho dovuto fare molti più tagli e più inquadrature con macchina fissa.
Le uniche inquadrature girate in 35 millimetri, sono quelle della fine, perché sono al rallentatore, e volevo che i rallenty fossero belli, cosa che è più difficile ottenere con la macchina fotografica.

Il suo desiderio di rimanere ancorata alla realtà è percepibile anche nel suono del film.
Sì, il suono è tutto in presa diretta e siamo stati attenti a non ripulirlo troppo al missaggio per conservare l’aspetto minimalista del film, le sue asperità, il suo realismo. D’altronde, a parte alcuni momenti musicali che sono in stereo, tutto il resto è in mono, per rimanere concentrati sulla storia, per avere “la testa dentro al film”.

Voce off, chiusura dell’iride, ralenty, musica… Lei ricorre a tutto senza mai perdere il tono del film, senza far perdere il filo allo spettatore.
In questo momento lavoro con Gilles Marchand sulla scrittura del mio prossimo film e lui mi dice che nel mio modo di lavorare, le soluzioni ai miei problemi di sceneggiatura arrivano un po’ da tutte le parti: da un attore, da una musica, da un costume… Tutto è in gestazione contemporaneamente, sempre. È per questo che mi piace partorire molto in fretta, sennò diventa presto estenuante!
La musica della sigla Radioscopie di Jacques Chancel, composta da Georges Delerue, in Francia la conoscono tutti. Quando un giorno l’ho sentita per caso alla radio, mi sono detta: “è esattamente quello che ci vuole per l’apertura del film”. Anche Vivaldi ha suscitato in me molte voglie. Jérémie è un grande melomane e conosce i miei gusti, mi ha fatto scoprire molte musiche. Sono un po’ come delle lampadine che si accendono, che mi permettono di vedere le scene future. Jérémie è molto più per me di un co-sceneggiatore e di un attore, è presente in ogni tappa del film, il nostro è un dialogo permanente.

Ci sono vari narratori per la voce off.
Sì, un uomo e due donne. L’uomo, è Philippe Barrassat, la voce narrante di La Reine de pommes. La prima narratrice è Pauline Gaillard, la mia montatrice. Mi mancava una voce off, e lei l’aveva registrata provvisoriamente al montaggio, e quando ho sentito la sua voce, mi sono detta che sarebbe stato fantastico avere diverse voci narranti, come fossero delle persone che si danno il cambio per raccontare una storia. La terza voce è quella di Valentine Catzéflis, che aveva una piccola parte nel film, ma la cui scena è stata poi tagliata al montaggio. Ha una voce splendida. Adoro le voci narranti, è un espediente narrativo che permette di avere una grande libertà durante il montaggio.

E quando Giulietta e Romeo si mettono a cantare?
In quel momento, la loro forza sta nel dirsi quanto si amano.

Non sembra mai chiedersi se c’è troppa musica, troppi sentimenti, se “si fa”…
No, seguo solo il mio intuito. Per me il cinema è anche divertimento, si gioca a costruire qualcosa. È difficile, crea molte ansie e tanti dubbi, ma non è grave, fare film è una cosa allegra, bisogna permettere a se stessi di fare ciò che si vuole. Forse sento così profondamente questo aspetto ludico perché sono prima di ogni altra cosa un’attrice.

È per questo che ci sono le apparizioni magiche durante la vigilia?
Sì, adoro il delirio, battere le mani e veder apparire un albero di Natale! Mi piacerebbe un giorno fare un film in cui c’è una bacchetta magica. “Il cinema è più allegro della vita”, diceva non ricordo più chi.
Questa libertà di tono e questa gioia contribuiscono a cancellare la linea di demarcazione tra dramma e commedia, come succede per esempio, col personaggio del pediatra, al limite del burlesco, che sarà poi quello che darà la brutta notizia…
Quel personaggio, è il frutto dell’associazione di diverse cose. Prima di tutto, l’attrice, Béatrice De Staël, che adoro e che recitava già una parte in La reine des pommes. Adoro dirigerla così, come una grande attrice del cinema burlesco. Le avevo fatto fare degli occhiali che le ingrandivano gli occhi, mi divertiva che avesse uno sguardo da civetta. A volte, li calava sulla punta del naso perché non ci vedeva nulla e questo le dava un’aria vagamente intellettuale, da pediatra sessantottina seguace di Dolto. E quando ho visto quel piccolo telefono per bambini su quella vera scrivania tutta incasinata, mi è venuta l’idea di chiedere a Béatrice di prenderlo al posto del telefono per chiamare il collega. Sapevo che lo avrebbe fatto in modo geniale. Sono idee molto sul filo, funzionano solo perché tutti vanno nella direzione del film, condividono la stessa visione, le stesse sensazioni, la stessa fiducia. È un po’ magico. E poi, voi vedete il film finito, abbiamo tenuto solo quello che funzionava.
Altro momento drammatico in cui esce fuori il burlesco: la scena in cui Romeo e Giulietta immaginano il peggio che potrebbe capitare al loro bambino. Inizialmente, la scena era più corta è più realistica, c’erano le paure vere, ma poi Jérémie mi ha detto che sarebbe stato bello spingersi un po’ oltre. E a questo punto, le paure diventano assurde.

Come si dosano umori e toni così diversi fra loro?
Il montaggio è stato molto complicato, ci trovavamo di fronte a una materia un po’ ribelle. Era una questione di istinto e di dosaggio preciso, un po’ come un ricamo. Una scena o un’inquadratura potevano facilmente squilibrare tutto. Il film era forte, ma il suo equilibrio era fragile, non bisognava rovinarlo. La cosa importante era riuscire a integrare quelle cose divertenti senza perdere la tensione del racconto. Pauline Gaillard è una montatrice molto intelligente, molto sensibile, con cui ho una grande complicità. Adoriamo lavorare insieme.
Il film è imbastito sulla tensione delle situazioni vissute giorno per giorno, ma lei non ricorre mai alla suspense generale su come andrà a finire. Sin dall’inizio, la costruzione in flashback ci fa capire che Adamo sconfiggerà la malattia.
Giocare sulla tensione della guarigione di Adamo avrebbe significato prendere in ostaggio lo spettatore. Da subito, volevo che si sapesse che sarebbe sopravvissuto e che ci si chiedesse solo cosa sarebbe successo per arrivare a quel risultato. Ancora una volta, il film racconta soprattutto la storia della coppia.

E dirigere un bambino?
All’inizio pensavo di prendere il figlio di amici, ma poi mi sono resa conto che era una cosa complicata. Non tutti sono disposti ad affidare il proprio figlio e a essere disponibili per più di venti giorni di riprese, era meglio rendere le cose più professionali. Abbiamo perciò fatto un casting e quando ho incontrato César, che interpreta Adamo, per me è stato evidente. I suoi genitori ci hanno aiutato molto, si sono fidati totalmente di noi. Non avevano mai pensato di farlo recitare, ma dopo il parto, la madre di César aveva fatto delle foto del bambino e siccome si annoiava, aveva creato un blog per mostrarle. Il padre di César aveva poi voluto toglierle, ma dato che lei non lo sapeva fare, sono rimaste lì. A quel punto, sono stati contattati da un sacco di agenzie di pubblicità e di casting, ma avevano sempre rifiutato, fino al giorno in cui Karen Hottois, la mia casting, li ha chiamati e gli ha raccontato la storia di La guerra è dichiarata.

E la scelta di interpretare la sua storia insieme a Jérémie Elkaïm?
Per La Reine des pommes, era stato facile interpretare Adèle perché è un personaggio di commedia pura. Il personaggio di Giulietta, invece, non avevo inizialmente alcuna voglia di farlo perché era molto vicina a me e soprattutto perché era una parte fortemente emotiva. Temevo di non essere all’altezza, e di essere impudica. In compenso, non avevo dubbi su Jérémie, perché, benché fosse anche lui molto vicino al suo personaggio, sarebbe stato diretto da me ed è un attore che adoro. Ma chi mettergli accanto? Era complicato. A un certo punto, ho pensato: “Allora, nemmeno lui”, ma siccome non riuscivo a far interpretare questa coppia da nessun altro, alla fine mi sono detta: “È più semplice, farò io Giulietta”.

Rivivere quei momenti, tornare in quei posti, non ha avuto paura di risvegliare il dolore?
Al contrario, mi ha fatto molto bene tornare lì, ma accompagnata questa volta, e in piena azione. Eppure non si ha la sensazione che lei abbia fatto il film per esorcizzare un dolore.
È vero, non ho fatto il film per esorcizzare nulla, ho solo voluto fare un film. Penso che il cinema non esorcizzi niente.

E il resto del cast?
Per il personale dell’ospedale, c’è un miscuglio di attori e di veri medici, come il dottor Kalifa. Avevo anche chiesto al professor Sainte-Rose di interpretare se stesso ma mi ha detto “Sono un pessimo attore”. In compenso, mi ha prestato il suo camice, il suo ufficio e la sua assistente!
Era complicato trovare l’attore giusto per Sainte-Rose. Il vero Sainte-Rose ha un carisma talmente eccezionale. E poi mi sono detta che non dovevo rimanere incollata a quella realtà, ma trovare una persona più semplice che sprigionasse però anche molta umanità. Jérémie mi aveva parlato di Frédéric Pierrot, e poi l’ho incrociato nella sala d’aspetto del dottor Zucharelli, a una visita per la medicina del lavoro! Ho pensato che aveva una voce bellissima. Per tutte queste parti secondarie, volevo attori bravi ma che non fossero troppo noti al pubblico. Per Fitoussi, l’idea di Anne Le Ny è arrivata subito, perché è un’attrice che mi piace molto.

Spesso nel suo film, si pensa a Truffaut – voce off, chiusura dell’iride, desiderio di far vedere i giovani d’oggi, Vivaldi… – ma non si pensa mai che sia per lei un riferimento. In questo senso, lei si inserisce proprio nello spirito della Nouvelle Vague e di Truffaut, che auspicava con forza dei film personali, che assomigliassero al loro autore.
È vero che lavoro in modo molto personale. Non c’è dubbio che faccio cose già sperimentate da Truffaut o da altri registi che amo, è così, ci si nutre inconsciamente di tutto ciò che si è visto e che si ama, ma non è un riferimento, è solo che serve al film.

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