Le nevi del kilimangiaro di Robert Guédiguian

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locandina Le nevi del kilimangiaro
 
Regista: Robert Guédiguian
Titolo originale: Les Neiges du Kilimandjaro
Durata:
Genere: Drammatico
Nazione: Francia
Rapporto: 1.85:1

Anno: 2011
Uscita prevista: Cannes 2011,02 Dicembre 2011 (cinema)

Attori: Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Grégoire Leprince-Ringuet, Anaïs Demoustier, Robinson Stévenin, Adrien Jolivet, Karole Rocher, Jacques Boudet, Gérard Meylan
Soggetto: Victor Hugo
Sceneggiatura: Robert Guédiguian, Jean-Louis Milesi

Trama, Giudizi ed Opinioni per Le nevi del kilimangiaro (clic qui)...In questa pagina non c'è nemmeno la trama per non fare spoiler in nessun caso.
 
Fotografia: Pierre Milon
Montaggio: Bernard Sasia
Scenografia: Michel Vandestien
Costumi: Juliette Chanaud

Produzione: Agat Films Cie, Ex Nihilo
Distribuzione: Sacher Distribuzione

La recensione di Dr. Film. di Le nevi del kilimangiaro
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Colonna sonora / Soundtrack di Le nevi del kilimangiaro
Potrebbe essere disponibile sotto, nei dati aggiuntivi (clic qui).

Voci / Doppiatori italiani:
Laura Boccanera: Marie-claire
Rodolfo Bianchi: Michel
Stefano De Sando: Raoul
Francesca Fiorentini: Denise
Marco Ovidio: Christophe

Personaggi:
Ariane Ascaride: Marie-claire
Jean-Pierre Darroussin: Michel
Gérard Meylan: Raoul
Marilyne Canto: Denise
Grégoire Leprince-Ringuet: Christophe
Anaïs Demoustier: Flo
Adrien Jolivet: Gilles
Karole Rocher: Madre Di Christophe
Julie-marie Parmentier: Agnes
Yann Loubartière: Jules
Jean-baptiste Fonck: Martin
Emilie Piponnier: Maryse

Informazioni e curiosità su Le nevi del kilimangiaro

INTERVISTA A ROBERT GUÉDIGUIAN
Come le è venuta l’idea di utilizzare la poesia Les pauvres gens (La povera gente) di Victor Hugo come punto di partenza del film?
Nel 2005, mentre scrivevo un appello per convincere gli elettori a votare contro la Costituzione Europea, feci riferimento alla poesia Les pauvres gens di Victor Hugo per descrivere in termini un po’ generici “le nuove forme di classe operaia”. In quell’occasione, rilessi il poema. La fine della poesia, ovvero il momento in cui il povero pescatore decide di adottare i figli della vicina morta dicendo “avevamo cinque figli, ora saranno sette” e quando scopre che la moglie, avendo preso per prima l’iniziativa, ha già portato i bambini a casa, è assolutamente struggente. Tanta bontà, tanta generosità è esemplare. E poi, c’è questa convergenza, quel gesto d’amore che unisce i due personaggi, l’uomo e la donna, ugualmente generosi. Ho subito pensato che sarebbe stata una fine stupenda per un film. Dovevo solo trovare un percorso contemporaneo per giungere a questo finale.

Dopo un thriller (Lady Jane) e un film storico (L’armée du Crime) questo film è un ritorno al suo cinema degli esordi?
Era ovviamente escluso che raccontassi la storia di un pescatore bretone dell’Ottocento. L’idea era quella di fare un film contemporaneo, a Marsiglia, con Ariane Ascaride, Gérard Meylan e Jean-Pierre Daroussin. E, come era già successo nel 1980 con L’ultima estate e nel 1997 con Marius e Jeanette, volevo fare il punto della situazione, nel quartiere dove sono nato, l’Estaque, e con la “povera gente” che vive lì…. Ci sono ritornato e ho cominciato a guardare il mondo e a vedere com’è adesso, per trarne, forse, due o tre verità universali.

Questo è un film che mette ancora una volta alla prova la realtà della parola “insieme”?
Per me, uno dei problemi più seri della società odierna è il fatto che non esista più una coscienza di classe. Nel senso che non si può nemmeno più parlare di “classe operaia”, è per questo che parlo di “povera gente”. Eppure, la coscienza di far parte della “povera gente” non esiste. E non esistono più, in Francia, quelle grosse realtà industriali che ancora c’erano negli anni 70 e 80, in cui tremila operai uscivano insieme da una stessa fabbrica.
La coscienza di classe a quei tempi non era soltanto possibile, era visibile; era incarnata da quelle migliaia di persone in tuta blu. E, molto naturalmente, quelle persone erano insieme, avevano interessi comuni anche quando avevano identità diverse. Non esistono due tipi di popolazione: uno autoctono, stipendiato, sindacalizzato, che vive nella casetta bi-familiare e l’altro immigrato disoccupato, delinquente, che sta in periferia. La politica e il cinema possono contribuire a smascherare quest’impostura intellettuale. Io non cambierò mai idea in proposito: per me questa rimane la questione più importante.

Anche nella forma, è tornato a un cinema luminoso, solare, con mare e cicale sullo sfondo.
Non avevamo più missato il canto delle cicale dai tempi di Marie-Jo e i suoi due amori. Negli ultimi cinque film ho esplorato stili che mi erano assai meno familiari. E ora sono di ritorno a casa! Seguendo il consiglio del mio direttore della fotografia, Pierre Milon, siamo persino tornati al super 16, che avevamo abbandonato per girare in digitale gli ultimi due film. E questo ci ha fatto piacere perché conferisce all’immagine un calore, una grana, qualcosa, che la rende più viva… Sono tornato ai miei “fondamentali”, nella forma e nei contenuti. L’unica differenza è che in L’ultima estate i personaggi avevano 25 anni, perché era la mia età di allora, in Marius e Jeanette, avevano superato i 40 e adesso sono dei cinquantenni perché lo sono ormai anch’io.

Marie-Claire e Michel, i personaggi interpretati da Ariane Ascaride e Jean-Pierre Daroussin sono genitori, persino nonni!
Prima o poi doveva succedere che iniziassi a lavorare su due generazioni e non più su una.
Mentre scrivevo, con Jean-Louis Milesi, avevamo deciso che le due coppie centrali, che dovevano essere di mezza età, sarebbero state circondate da personaggi molto giovani. Volevo che il contrasto tra la generazione di Marie-Claire e Michel e quella successiva non fosse solo rappresentato dal personaggio che li aggredisce. Lo scontro, perciò, loro lo vivono anche con i propri figli che non capiscono le scelte dei genitori. Florence e Gilles si sono ritirati nella cerchia della famiglia e degli amici, il che costituisce per me una regressione. Non vogliono mettere a repentaglio la loro piccola vita tranquilla. Non li biasimo per questo, hanno anche loro dei problemi, Gilles ha perso il lavoro al cantiere navale, anche se poi ne ha trovato un altro, e il marito di Florence deve andare a lavorare a Bordeaux. Deve sempre viaggiare per lavoro, il che rende la vita quotidiana più complicata. Diciamo che hanno perso la “capacità di indignarsi”. Io capisco il timore di lasciare il tepore di casa … perché si non si ha voglia di patire il freddo, è legittimo. Ma nella storia che raccontiamo, questo modo di essere può avere conseguenze gravi, e saranno i genitori alla fine a impartire loro una lezione di coraggio.

Benché l’aggressore sia della stessa generazione di Florence e Gilles, deve combattere con un’altra realtà.
Per quanto riguarda le giovani generazioni che fanno parte dei “nuovi poveri”, volevamo parlare di coloro che, colpiti in pieno dalla povertà, vivono un senso di rivolta più grande rispetto ai nostri protagonisti che hanno trovato un fragile equilibrio – solo perché le circostanze glielo hanno permesso – ritirandosi in una forma di solidarietà all’interno del gruppo più piccolo che esista: la famiglia.
Christophe invece, passa dall’altra parte perché non ha scelta, poiché scopriamo che ha pagato l’affitto con i soldi che ha rubato, e che la sua famiglia consiste nei due fratelli che sta tirando su da solo.

Per Marie-Claire e Michel, l’aggressione di cui sono vittime è come un elettrochoc.
Vengono presi letteralmente a botte, ma ricevono anche una botta morale. Quello che gli capita in quel momento è per loro assolutamente impensabile. Vengono aggrediti da uno di loro, e questo li distrugge intellettualmente rispetto a ciò per cui hanno sempre lottato. È una cosa insopportabile per loro che sono riusciti a conquistare quel poco che si riesce, o meglio si riusciva, a conquistare alla fine di una vita di lavoro. Tutti gli esperti politici e sindacali hanno rilevato questo fatto: siamo di fronte a un arretramento. È la prima volta nella storia che siamo confrontati a una generazione che rischia di vivere peggio dei propri genitori.

Marie-Claire e Michel si rendono conto che ci sono delle persone più povere di loro e che si è sempre ricchi rispetto a qualcun altro. E questo li porta a rivisitare la nozione di “coraggio” contenuta nel discorso di Jaurès citato da Michel…
Il film è un crocevia fra Victor Hugo e Jean Jaurès. Credo che Les Misérables (I Miserabili) sia il primo libro serio che abbia letto in vita mia. Sono passato direttamente dai gialli per bambini a Victor Hugo, e appena mi sono impegnato in politica, Jaurès mi ha folgorato, attraverso questo testo tratto da un discorso ai giovani di Albi, scritto meravigliosamente e rimarchevole sotto ogni punto di vista.
In questo discorso, Jaurès definisce il coraggio in vari modi diversi, con la figura retorica che consiste nel ripetere all’inizio di ogni frase: “il coraggio è…” E lui sottolinea il fatto che il coraggio significa anche farsi carico della propria vita a livello individuale, insistendo sul legame tra la vita individuale e quella collettiva, l’individuo e la società. Il coraggio non si esplica solo nell’ambito della collettività: il coraggio c’è anche nella vita quotidiana di ognuno, nel modo in cui la si affronta, la si mette in pratica, nella propria morale. Marie-Claire e Michel si dicono che devono fare qualcosa. Hanno passato una vita a fare battaglie collettive, ma ora si accorgono che non basta più.

Quando Christophe sottolinea l’ingiustizia del sorteggio, Michel, da vecchio sindacalista, è molto turbato.
È più che turbato: Michel pensa che “non ha tutti i torti”, è quindi che ha ragione. E questo sconvolge la strategia da lui pensata per quella lotta e le scelte fatte dai membri del sindacato.
La proposta di Christophe, che consiste nel prendere in esame la situazione di ciascuno, è giusta. Senza darlo a vedere, questo giovane è un libertario, ha praticato il comunismo senza saperlo.

Riguardo alla vendetta, il bisogno di punire il cattivo, la reazione di Raoul è molto violenta, eppure tremendamente diffusa, non è così?
E le persone che reagiscono in questo modo non sono necessariamente di estrema destra. È una cosa viscerale e indipendente dalla propria collocazione politica. E per me, è un peccato, e d’altronde è quello che pensa anche Michel. Se vogliamo cambiare il mondo, bisogna intervenire su tutti i temi: il nucleare, la condizione femminile, la sessualità, le forme di punizione nella società… Insomma, tutte le questioni che non sembrano avere a che fare col sociale, con l’economia, con la politica e che pure c’entrano.

Come spesso avviene nel suo cinema, in questo film, oltre a tutte le questioni importanti di cui abbiamo parlato, ci sono anche tante piccole cose: insegnare ai bambini come si mangiano le sardine, boicottare il macellaio che ha un comportamento sbagliato, parlare con una vecchia signora sola nel bel mezzo della notte…
Nella vita, mi piacciono molto le cose banali di ogni giorno: il bar, la spesa, le discussioni… Nei film, sono proprio questi piccoli dettagli della vita quotidiana inseriti nella narrazione che gli danno spessore e profondità. Ho sempre scritto scene della vita quotidiana, non mi stanco mai.
E le riprendo, le taglio e le monto molto semplicemente, per fargli dire né più né meno di quello che ci raccontano, senza artifizi: la vita così com’è! Il che non mi impedisce di prendermi ogni tanto in giro e di pensare che a volte posso esagerare un poco. Qui ci sono un sacco di cotolette, di sardine e di salsicce… Le Nevi del Kilimangiaro è senz’altro il film con più barbecue di tutta la storia del cinema.

Nel film, l’unico bene condiviso da tutti è il mare, che si può vedere dalle finestre di ogni casa.
Sì. Ma è anche la vista sul mondo del lavoro. E il lavoro, alcuni ce l’hanno e altri no! Ogni finestra è sbarrata dalle enormi gru del porto di Marsiglia. Quando facevamo i sopralluoghi, la scelta degli appartamenti è stata fatta in funzione delle gru: simbolicamente è da lì che inizia la storia, con la prima scena del licenziamento, sulla banchina. Dalla casa di Michel e Marie-Claire, da quella dei loro figli, dalla casa di Christophe Brunet e anche da quella della signora Iselim (la signora anziana presso cui Marie-Claire fa le pulizie) si possono vedere le gru, il mare, le navi. Tutti questi mondi sono diversi: ci sono case operaie, villette in zone residenziali per “nuovi ricchi” (con i cancelli, i codici di sicurezza), e grattacieli decrepiti… Ma la vista è la stessa per tutti.

Le inquadrature sono più ricche di prima, nella scelta di ciò che si vede in campo, nell’uso della scenografia, nel modo in cui gli attori entrano in scena…
È perché sono più vecchio! E’ tutto meno asciutto. Lascio che le cose accadano, che respirino. Lascio vivere le inquadrature… forse prima le ingabbiavo, le tenevo un po’ più a freno. Ho sempre detto che dirigo gli attori come uno che guida in autostrada: dando loro una direzione.
Ma oggi, credo di lasciarli più liberi di passare da una corsia all’altra, a seconda di quello che si sentono di fare. Io li accompagno, danzo con loro… Ciò detto, mi riprendo il controllo durante il montaggio, insieme a Bernard Sasia, il mio montatore. Non giro quasi mai piani-sequenza, faccio tanti tagli, e questo mi permette di avere molte possibilità di scelta durante il montaggio.

Durante le riprese, il film si intitolava Les pauvres gens, e alla fine ha scelto di intitolarlo Le nevi del Kilimangiaro…
Les pauvres gens e il riferimento a Victor Hugo arrivano alla fine, su un cartello che precede i titoli di coda, il che è più giusto e più forte che se lo avessimo messo all’inizio. Le nevi del Kilimangiaro è un titolo che suggerisce il vasto mondo, mentre in realtà ci troviamo a l’Estaque.
Ed è anche la canzone che cantano i nipoti di Marie-Claire e Michel al loro anniversario di matrimonio. L’idea del regalo di gruppo di un viaggio per la Tanzania è rappresentata da questa canzone. Ho sempre amato la musica popolare, ci consente di datare i momenti piccoli e grandi della vita molto meglio del carbonio 14. E ci tengo a dire che ho visto Pascal Danel cantare dal vivo questa canzone al Gymnase di Marsiglia negli 60, in apertura del concerto di Salvatore Adamo! Marie-Claire e Michel sono della generazione di Pascal Danel… e anche della generazione di Joe Cocker, di cui sentiamo nel film l’interpretazione di Many rivers to cross.

Il film prende in considerazione le trasformazioni e le evoluzioni del mondo, e anche le sue. Da qui la domanda di Michel: che cosa avrebbe pensato la persona che eravamo a vent’anni di quello che siamo diventati oggi?
È una domanda che Ariane, io, e altri del gruppo ci siamo sempre posti… Io sono sempre andato avanti chiedendomi che cosa avrei pensato quando avevo vent’anni della persona che sono diventato. E a vent’anni ero, come si può ben immaginare, un ragazzo eccessivo, ribelle.
Direi persino che mi sono sempre sforzato di comportarmi in un modo che potesse piacere al ragazzo di allora: come se quel ventenne di un tempo fosse per me una specie di grillo parlante, la voce della mia coscienza…

Rifacendosi a André Malraux, lei ha affermato un giorno che “un film popolare è quello che rivela alla gente la grandezza che c’è in loro”.
E ne sono convinto più che mai. Per me, queste persone sono la speranza. Possiamo chiamarli “Santi” o “Giusti”, comunque queste persone ci sono, esistono. La speranza risiede nella riconciliazione di tutta la “povera gente”. E ovviamente, io immagino, come epilogo del mio film, che quando uscirà di prigione, Christophe ritroverà Michel, Marie-Claire, Raoul e Denise e che ricominceranno a combattere. Insieme.

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