Venere Nera di Abdel Kechiche

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locandina Venere Nera
 
Regista: Abdel Kechiche
Titolo originale: Venus Noire
Durata: 166'
Genere: Drammatico
Nazione: Francia, Italia, Belgio
Rapporto:

Anno: 2010
Uscita prevista: Venezia 2010,17 Giugno 2011 (cinema)

Attori: Olivier Gourmet, Jonathan Pienaar, Jean-Christophe Bouvet, André Jacobs, Olivier Loustau, Diana Stewart, Gilles Matheron, Philip Schurer, Violaine de Carne, Jeanne Corporon
Sceneggiatura: Abdel Kechiche, Ghalya Laroix

Trama, Giudizi ed Opinioni per Venere Nera (clic qui)...In questa pagina non c'è nemmeno la trama per non fare spoiler in nessun caso.
 
Fotografia: Lubomir Bakchev
Montaggio:

Produttore: Charles Gillibert,Marin Karmitz,Nathanaël Karmitz
Produzione: MK2 Productions, Lucky Red
Distribuzione: Lucky Red

La recensione di Dr. Film. di Venere Nera
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Colonna sonora / Soundtrack di Venere Nera
Potrebbe essere disponibile sotto, nei dati aggiuntivi (clic qui).

Voci / Doppiatori italiani:
Cristiana Rossi: Saartjie Baartman
Luca Biagini: Hendrick Caezar
Paolo Marchese: Reaux
Sonia Mazza: Jeanne
Augusto Di Bono: Georges Cuvier

Informazioni e curiosità su Venere Nera

Note dalla produzione:

Abdella tif Kechiche, INTERVISTA
Abdellatif Kechiche risponde alle domande fondamentali del film, espresse per esercizio in modo affermativo, se non perentorio. Come i giudizi dati a quell’epoca sulla sua
eroina,Saartjie Baartman.

La psicologia non basta a riassumere la complessità di un essere

Lo psicologismo limita addirittura la comprensione dell’essere umano. L’immagine, da sola, rivela a volte molte più sfumature nella natura umana di tutti i tentativi di spiegazioni psicologiche. Quando il cinema riesce ad essere sottile come la vita, è magnifico. L’interpretazione dell’attore vi contribuisce molto... Bisogna sempre tenere presente che nel cinema la tecnica può anche nuocere a questa interpretazione e renderla completamente ermetica alla vita...
E poi a volte non ci sono spiegazioni da cercare: c’è il mistero. Saartjie è un personaggio molto misterioso... È ciò che mi ha interessato subito... Tutto sommato non si sanno molte cose delle sue vere motivazioni, si conosce solo qualche data sicura: il viaggio dal Sudafrica all’Inghilterra, le rappresentazioni, il processo a Londra, il suo battesimo e il suo passaggio davanti agli scienziati francesi.
Tutto il resto è tra le righe... È questo vuoto di spiegazioni che è interessante filmare.
Il suo mistero rimasto intatto ci costringe a interrogarci costantemente su noi stessi.
Ho letto tutto ciò che è stato scritto su di lei e ho trovato che spesso si tendeva a cadere in tentazioni di tipo esplicativo. O si faceva di lei una schiava assoluta, senza sfumature - cosa che mi è sembrata un po’ difficile da credere, perché tra l’altro avrebbe potuto approfittare della mano tesa dall’African Institution, cosa che non ha fatto. E poi dalle ultime ricerche storiche si sa che faceva già delle rappresentazioni a Città del Capo... - oppure era tutto troppo romanzato e lei perdeva tutto il suo mistero, cosa che mi è sembrata irrispettosa. Perché in effetti Saartjie Baartman mi ha subito ispirato rispetto. Non ciò che è stato scritto su di lei, ma la sua immagine.
A volte l’immagine dice più di tutto ciò che si può scrivere. È quel che ho sentito vedendo i ritratti di Saartjie fatti dai disegnatori del museo, e ancor più quando ho scoperto il suo calco originale conservato in Francia.
Il suo volto mi ha emozionato. Parla di lei meglio di chiunque. Si percepisce senza dubbio tutta la sua sofferenza: ha i lineamenti gonfiati dall’alcol, dalla malattia. Ma al di là di questo sembrava – nei disegni come nel calco – considerare la vita con un distacco di tipo quasi mistico...
La sofferenza che ha sopportato c’entra sicuramente molto... Anche le disillusioni... È la cosa cui sono stato più sensibile. Lei ispira il distacco, la più assoluta abnegazione e l’intelligenza. Deve sapere molto sulla natura umana...
Incontrando la sua immagine ho sentito il dovere di raccontare la sua storia.

Essere artista, come aspira ad essere Saartjie, significa offrirsi senza barriere al pubblico

Saartjie non si offriva senza barriere al pubblico, era costantemente violentata da tutti. Quello che la gente vedeva non era lei ma una caricatura: non era quello che lei voleva dare, era ciò che volevano vedere.
Conformarsi al modo in cui l’altro ci guarda, quando il suo sguardo è degradante, è molto doloroso, complesso. In un certo senso lei era una vera e propria schiava.
Saartjie era un’artista, è riferito un po’ ovunque: suonava uno strumento, aveva una predisposizione per il canto e ballava molto bene... Un’artista completa il cui dramma è forse quello di non essersi mai potuta esprimere, perché non era quello che ci si aspettava da lei...
Non doveva esprimersi, doveva illustrare un discorso, dare ragione alla mentalità di quell’epoca. Era prigioniera del modo in cui gli altri la vedevano... In fin dei conti è forse il tema principale del film: l’oppressione dello sguardo degli altri.
Mi sono identificato molto con questa dimensione del personaggio. È quello che sentivo ai miei esordi da attore. Soffrivo per quello che ci si aspettava da me, non come attore ma come arabo. Mi sentivo in gabbia. I ruoli che si offrivano agli arabi a quel tempo erano molto limitati.

Il primo compito di un regista è d’instaurare fin dall ’inizio uno spirito di gruppo

Unire uno staff intorno ad un progetto aiuta il lavoro. Ho sempre cercato di portare nel mio lavoro al cinema lo stesso rigore che ho conosciuto nel teatro. Ovvero di non iniziare le prove il primo giorno di riprese ma molto tempo prima. Gli attori imparano a conoscersi, formano un gruppo, e io imparo a capire meglio le possibilità di ognuno... La preoccupazione di formare un gruppo unito è stata a lungo un’ossessione per me.
In questo film, stranamente, mi sono sentito più calmo, fiducioso dell’interazione che doveva crearsi tra Yahima, Olivier, André, Elina e Michel, tra gli altri. È stato quasi qualcosa di intuitivo.
Se prendiamo l’esempio di Andre Jacobs, il mio sguardo si è fermato sulla suo foto ed è stato evidente: Caezar sarebbe stato lui. Non l’avevo mai visto recitare prima e non gli ho fatto fare nessun provino.

La scelta di attori non professionisti, come Yahima Torres, garantisce l’autenticità della loro interpretazione

Non è possibile essere senza esperienza e recitare in modo già sopravvalutato... Ho scelto lei perché non avevo trovato un’attrice nera con una morfologia che si avvicinasse a quella di Saartjie Baartman. Yahima l’ho vista per la prima volta nel 2005. È passata per strada, vicino casa mia.
Sono stato colpito dalla sua presenza e dai lineamenti che mi hanno fatto pensare immediatamente a Saartjie. Quando l’ho ricontattata, qualche anno dopo, per fargli fare dei provini, la leggerezza con cui Yahima prende la vita ha rafforzato la mia scelta. Ho capito che avrei potuto spingerla a esprimere delle emozioni molto forti senza che lei ne restasse segnata.
In seguito ho scelto un gruppo di attori che l’avrebbe sostenuta, questo «gruppo» per me così prezioso. Tutti i suoi partner, degli attori di mestiere, sono stati non soltanto eccezionali ma anche protettori, spontaneamente generosi nei confronti di Yahima.
Pensare che si prendano attori non professionisti per motivi di spontaneità SS nella recitazione è un mito. È molto più facile lavorare con attori professionisti, dal momento che sono pieni di talento, che con dei non professionisti che bisogna formare e a cui bisogna spiegare tutto. Alla base c’è un talento, in fin dei conti abbastanza diffuso; il resto è tanto lavoro per portarli alla professionalità. E l’impressione di autenticità proviene solo dal lavoro.
L’ambientazione storica al cinema uccide la storia del film.
Lanciarsi in un adattamento storico fa temere il rischio di mettere in scena solo l’ambientazione e di perdercisi. È senza dubbio molto piacevole far rivivere il passato nei minimi dettagli e farlo bene, come in un quadro. Il rischio è di dedicarvi tutta l’energia, al punto da non sapere più perché si fa...
Per quanto mi riguarda, il rischio era limitato dalla mancanza di mezzi. All’inizio il film era stato stimato il doppio di quello che è costato. La prima cosa che ho dovuto sacrificare è stato tutto ciò che faceva parte dell’ambientazione storica.
E poi l’estetica leccatissima del passato nel cinema non mi affascina in modo particolare. Ho sempre preferito filmare volti meno truccati, piuttosto che le scenografie e i costumi, e liberarmi degli obblighi consueti del cinema, come le ore per il trucco, l’illuminazione etc...
In ogni modo il mio interesse principale per il percorso di Saartjie Baartman si è iscritto subito in una dimensione che secondo me va oltre la storia: la complessità dei rapporti di dominazione, le problematiche della gente del mondo dello spettacolo e il posto dell’essere umano in tutto questo.

L’uomo è un lupo per la donna

È un po’ dura per il povero lupo... Gli esseri umani sono come sono, capaci delle cose peggiori come delle migliori. È vero che gli uomini hanno oppresso molto le donne nel corso della storia... Ma una donna nera e diversa, sintetizza in sé tutti i motivi di oppressione!
In realtà non ho cercato di accusare gli uomini... Mi sono piuttosto concentrato sull’immagine, nel senso che ho mostrato quello che è stato riferito, per capire come una tale oppressione potesse essere concepibile. Ho cercato, per quanto possibile, di non giudicare le persone, ma è vero che a volte non è stato facile.
Per esempio, per quanto riguarda gli scienziati, ho semplicemente trasposto in immagini quello che essi stessi hanno scritto o fatto. Era più che sufficiente... A volte mi è sembrato talmente violento che ho dovuto attenuare un po’ i fatti...
Quando ho saputo che il comitato di scienziati che ha osservato Saartjie da viva – cosa che deve essere stata già molto umiliante per lei, visti i commenti che hanno lasciato – ha approfittato della sua morte per cercare di vedere quello che lei gli aveva proibito da viva, l’ho trovato di un orrore assoluto.
Non si può, con il pretesto della ricerca scientifica, perdere così la propria umanità...
Non credevo possibile che dei gentiluomini ben vestiti macellassero il corpo di una donna in tutta impunità, lo mettessero dentro dei barattoli e andassero a pavoneggiarsi, a discorrerne come se si trattasse di un trofeo...
Certo, si può dire che la considerassero come un animale, ma in realtà neanche tanto.
Cercavano di provare che fosse più vicina all’animale che all’uomo, ma tutti i loro racconti fanno credere che ne dubitassero essi stessi... D’altra parte un animale non avrebbe opposto un rifiuto...
Forse è questo che gli rimprovero di più: la disonestà intellettuale. Non erano accecati dalle loro idee ma si accecavano deliberatamente per ambizione. Negli ambienti scientifici si faceva a gara per apportare la giustificazione dello sfruttamento dell’Africa, che avveniva contemporaneamente. Bisognava togliere agli africani ogni forma di umanità per potersi dare il diritto di opprimerli.

La cultura africana e l’idea stessa di civiltà sono antitetici

Per me questo genere di frase illustra l’accanimento di tutta una corrente pseudointellettuale a fare degli africani degli esseri inferiori. Mi rifiuto di partecipare a un dibattito del genere. È lo stesso di Cuvier, che affermava che gli egiziani, per quanto fossero stati neri, appartenessero alla razza dei bianchi.
Lascio agli intellettuali africani, che lo faranno molto meglio di me, il compito di difendere il loro posto nella storia dell’umanità. Per una società è essenziale conoscere la propria storia. Sono convinto che è malsano occultare il passato.
Dando un corpo in carne e ossa a Saartjie Baartman, spero di aver contribuito a modo mio a fare un po’ di luce su una zona d’ombra della storia di Francia. E a far sì che le lingue si sciolgano.

Saartjie non è il simbolo della sottomissione del popolo nero, come è stato celebrato dal Sudafrica nel 2002

A seconda di come la sua storia sia stata riferita, appare a volte come una schiava nel senso stretto del termine, cioè una donna messa in gabbia, sfruttata e maltrattata, o invece come una donna che dava spettacolo di sua spontanea volontà, cosa che non le impediva di essere maltrattata.
Credo che l’interesse del dibattito non stia in questo. Il fatto che desse spettacolo di sua volontà non toglie niente alla potenza del simbolo di sottomissione del popolo nero che lei rappresenta. Forse gliene dà addirittura di più.
Perché la violenza morale inflitta a Saartjie è più intollerabile di qualsiasi atto di brutalità fisica. Ma anche perché restituendo la sua complessità alla sua sottomissione, che prima di tutto deve essere stata morale, la si collega a tutte le forme di oppressione ancora praticate.
Come l’oppressione simbolica, attraverso la rappresentazione caricaturale delle minoranze e le frasette razziste, che giustificano la dominazione di un uomo, di una donna o di un gruppo di uomini, esercitata da un altro. È sempre di attualità...

Il processo di lavorazione di un film è una trattativa costante, anche con se stessi, per salvaguardarne l’integrità artistica

L’integrità artistica è un’ideale. Ci si batte per avvicinarvisi. Anzitutto contro gli altri, perché ognuno vede il film a modo suo. Riuscire a unire tutto uno staff su una stessa idea del film è molto complesso. Ci vuole un morale d’acciaio per non mollare e seguire le proprie scelte fino in fondo.
E anche contro se stessi, certo, perché siamo tutti imbevuti di influenze, di convenzioni. Rimettere tutto in discussione non è facile. Le convenzioni rassicurano. Andare contro di esse ci mette in pericolo, ci espone all’incomprensione...
Le riprese non sono state sempre comode per tutti, specialmente per lo staff tecnico...
È un’impressione confusa molto delicata da chiarire...
Mettere in scena un personaggio che soffre, in particolare nelle scene che si svolgono nei salotti libertini, ripetere le riprese per raggiungere la verità di questa donna, non lascia nessuno indenne e senza domande.
Tra scrivere « lui la colpisce » o « lei si sdraia per terra davanti al pubblico » e vederlo, c’è una differenza che può suscitare disagio... Non ci si avvicina a questo film come si farebbe con un soggetto tenero e romantico; interrogandosi sull’essere umano si coinvolgono per forza quelli che partecipano al processo di lavorazione.
La scena del salotto libertino ne è stato l’esempio più evidente. Nella sceneggiatura era molto più cruda, esplicita. Lo sguardo che avrei rivolto a questa scena era al centro di tutti gli sguardi. Ho fatto assegnamento sulle testimonianze che esistevano e ho interpretato, soprattutto quando « salvo » i libertini che, di fronte alle lacrime di Saartjie, fermano l’esibizione.
Mi piaceva l’idea che Saartjie, dopo aver subito la violenza degli scienziati, incontrasse delle persone che vedessero in lei una fonte di desiderio, di bellezza, e finissero per rispettarla. Volevo anche interrogarmi sul fenomeno di gruppo, in cui l’individuo si sente meno esposto perché la sua responsabilità è diluita...
Pur mostrando ciò che è umanamente insostenibile, non ho mai perso di vista le regole del pudore e del rispetto verso lo staff.
Mi sono lasciato guidare tanto dalla preparazione fatta a monte che da ciò che scaturisce sul momento. È l’attore, la sua emozione, la sua violenza e il suo ritmo che vi danno la sensazione che bisogna andare in una certa direzione... Come nei miei film precedenti, ho cercato di fare in modo che il set sia un luogo di creazione e non di esecuzione.

Lo sguardo di un cineasta ispira e influenza quello dello spettatore

Non ho mai sentito in modo così forte, come durante la realizzazione di questo film, la pressione dello sguardo dello spettatore.
Per avvicinarmi il più possibile a Saartjie, ho condotto una sorta d’inchiesta, di ricostruzione dei fatti. E sono i dettagli che fanno la storia, come il momento in cui una delle spettatrici londinesi tocca le natiche di Saartjie con un ombrello: il fatto è raccontato tale e quale in una testimonianza dell’epoca. La gente andava veramente a vedere la Venere ottentotta per divertirsi a toccare il suo grosso sedere e aveva paura di essere morsa.
La violenza è essenzialmente quella dello sguardo. Il film è inevitabilmente una riflessione sulla direzione dello sguardo dello spettatore. Anche sul cinema: che cosa si aspetta da esso lo spettatore? Che cosa bisogna dargli e in quale modo?
Ne deriva la questione della responsabilità del cineasta. In questa prospettiva, il mio approccio è stato quello di essere in ognuno dei personaggi. Per quanto Caezar pensi ad arricchirsi è attraversato da ossessioni artistiche. Réaux è un regista che farà di tutto affinché lo spettacolo appaghi le attese del pubblico. Perfino Cuvier manifesta, al di là delle ambizioni scientifiche, una riflessione sull’estetica. Volevo restituire a loro la loro verità.

L’intelligenza di colui che guarda un racconto come questo deve stare in allerta.

Io per primo, perché non ho necessariamente tutte le chiavi per spiegare, capire, malgrado la passione che ho per il personaggio di Saartjie. Non l’ho mai sentita come un simbolo e ancor meno come una santa, ma come una persona che mi avrebbe insegnato a parlare di certe cose. Guardi l’aura che ha ancora oggi. Nonostante tutto ciò che le è stato preso, mi sembra che Saartjie abbia ancora della cose da darci e da dirci. Forse, dopo dieci anni passati « insieme », sono diventato il suo strumento?


Yahima Torrès - Saartjie

Quando ha sentito parlare per la prima volta della Venere ottentotta?

Sapevo poco su Sarah fin quando Abdel me ne ha parlato. Ci eravamo incontrati per caso a Belleville nel 2005, mentre lui preparava « Cous cous » e ci siamo ritrovati tre anni dopo, mentre stava facendo il casting di « Venere nera ». Per me è stato molto commovente ed un onore che Abdel mi proponesse d’incarnarla. Mi sono messa a raccogliere tutte le informazioni che potevo trovare su Internet.
Questa donna ha vissuto molte sofferenze interiori, si è sentita sola molto spesso, anche quando era « protetta » da Caezar o quando la si vede circondata da figure femminili «amiche » nel bordello.
Ciò che mi è piaciuto, nell’approccio di Abdel, sono le molte sfaccettature di Sarah. Il suo desiderio profondo era di essere un’artista, in un’epoca in cui la gente non era capace di vedere al di là delle apparenze. Sarah è rimasta per loro una curiosità, una persona « diversa » fisicamente e culturalmente. È una storia che bisognava raccontare, umanamente.

Come si è impossessata di un personaggio che ancora oggi è caratterizzato da molte zone d’ombra?

Sarah si è costruita poco a poco, al suo fianco. È un ruolo carico di emozioni forti, di tristezza, ma c’era anche la sua ostinazione e la sua padronanza in diverse cose. Ho dovuto apprendere i rudimenti dell’afrikaans, il suo modo molto personale di ballare, di suonare, di cantare. Dovevo essere all’altezza dei suoi molteplici talenti.
Capisco anche la sua solitudine dovuta allo sradicamento. Ho vissuto a Cuba prima di venire a vivere in Francia: c’era una strana miscela fatta di scoperte, di cose nuove da imparare, ma anche di nostalgia. Ogni straniero ha bisogno di restare legato alle sue radici attraverso gli incontri, la musica, dei ricordi concreti. Io ho questa fortuna, Saartjie non l’ha mai avuto davvero.

Oltre ad essere il suo primo ruolo al cinema, è stato un approccio artistico completo!

Sì, è un personaggio molto fisico. Prima di iniziare ho seguito dei corsi di canto e di danza africana, anche se a Cuba avevo acquisito delle buone basi! È una danza molto « radicata », tribale, una specie di trance, di energia che viene dalla terra...
Ho continuato ad allenarmi anche durante le riprese, per essere in sintonia con l’energia di cui ha dato prova Saartjie. Avevo un coach sportivo, facevo esercizi per la respirazione. Per resistere e farla esistere.

Come donna capisce la sua scelta di esibire il proprio corpo nella speranza di essere riconosciuta?

Saartjie aveva un sogno: venire in Europa per realizzarsi come artista. In Sudafrica lavorava per Caezar in cambio di un salario minimo. La schiavitù era stata abolita. In teoria, perché lei e la sua famiglia hanno sempre lavorato per i coloni. È anche stata complice di Caezar, sicuramente perché lui era la sua unica protezione in un continente sconosciuto.
Quanto al suo rapporto con il corpo, nessuno può sostenere l’idea che una donna non abbia il diritto di dire « no ». Il fatto che Sarah si mostri non significa che autorizzi chiunque lo voglia a violentare il suo corpo. Altrimenti è un abuso, l’espressione di una dominazione che non ha niente di umano.
Nella scena in cui Saartjie fa la schiava sessuale in un salotto parigino, i libertini sono eccitati, la vedono come un oggetto di piacere. Ma agli occhi di Saartjie, che sa di essere una donna, di essere umana, sono loro ad apparire come degli animali.

Ha immaginato Sarah come un’artista fin dall’inizio?

Sì. Era capace di fare delle belle cose in scena e di trasmettere delle emozioni al pubblico. Anche se gli spettacoli che dava non corrispondevano alle promesse di Caezar, aveva una sua integrità.
Per esempio quando inizia a cantare bene, facendo appello alle proprie radici africane, gli spettatori non ridono più di lei: tacciono, sono conquistati. Sarebbe potuta essere un veicolo della cultura africana, se la gente l’avessa guardata in modo diverso. Saartjie non si esprimeva molto, ma osservava e rifletteva intensamente.

Come percepisce i due uomini, Caezar e poi Réaux, che hanno esercitato il loro ascendente su Saartjie?

Caezar è responsabile della piega che hanno preso gli spettacoli londinesi: ha capito che facendogli interpretare la « Venere ottentotta » avrebbe guadagnato più soldi che portando in scena il talento di Sarah. L’ha manipolata per ambizione e ha superato dei limiti che mostrano che doveva avere ben poco rispetto per Sarah. Al tempo stesso, a modo suo si prendeva cura di lei. Erano anche partner. Quando lui l’abbandona, l’alcol nel quale lei si era rifugiata da anni diventa il suo unico compagno. Non dico che Saartjie avesse voglia di morire, ma non ha lottato per vivere.
Réaux non c’entra niente con Caezar, a parte il fatto che anche lui ha promesso la luna a Sarah. Per me è anche peggio di lui e non provava nessun sentimento nei confronti di lei: era un uomo del circo che voleva solo fare fortuna e che è arrivato addirittura a prostituire lei e Jeanne, la sua stessa compagna.

È Georges Cuvier che, in nome della scienza, viola nel modo più brutale l’integrità di Sarah...

Lui e il suo comitato hanno scelto di dimenticare l’essere umano che era Sarah per ridurla ad animale, ad oggetto. Cuvier ha catalogato Sarah in base alle sue particolarità fisiche perché questo serviva alle sue ambizioni.
Lei l’ha capito perfettamente e ha capito la differenza tra i suoi spettacoli, in cui mostrava le sue forme particolari, e le giornate passate con gli scienziati. Ha rifiutato che esaminassero il suo sesso perché si trattava di una violenza fatta al suo corpo.
Soltanto Jean-Baptiste Berré la considera nella sua integrità e la rispetta. La disegna, le rende la sua umanità, come se la ringraziasse di essere quello che è, interiormente. È una scena molto commovente, una boccata d’ossigeno nel film.

Il modo rispettoso e autentico con cui Abdellatif Kechiche s’interessa a Saartjie è lo stesso con cui s’interessa anche lei, come donna e come attrice...

Sì, il suo interesse è al tempo stesso quello di un artista e di un essere umano. Non si è mai permesso di giudicare Saartjie né nessun altro personaggio. Questo si è tradotto, durante le riprese, in un rispetto assoluto degli attori. È per questo motivo che le scene di nudo e di sottomissione nei salotti libertini non mi hanno mai dato fastidio.
Oltre a pensare alle prove e al mio lavoro, Abdellatif si è assicurato che non fossi segnata né ferita da scene così violente. Ero anche circondata dalle attenzioni degli altri attori. Mi sentivo assolutamente a mio agio.

Secondo lei, qual è l’eco attuale del percorso di Saartjie Baartman?

Era imperativo che tornasse nel proprio paese, perché tutti hanno diritto ad essere sepolti rispettosamente. In Sudafrica l’associazione che difende le donne maltrattate porta il nome di Saartjie Baartman. È un simbolo, inevitabilmente.
Oggi è finalmente riconosciuta come essere umano. Il film trasmette l’idea semplice e universale che abbiamo tutto da imparare dagli altri. E imparare significa rispettare ciò che ci è estraneo: un fisico, una cultura, un linguaggio. È questo essere umani.


André Jacobs - Hendrick Caezar

Che cosa sapeva della storia di Saartjie Baartman prima di girare Venere nera?

È un’icona per molti sudafricani. Sapevo che aveva soggiornato a Londra, che il suo corpo era stato restituito qualche anno fa dalla Francia al Sudafrica, ma sono entrato nei dettagli solo durante la preparazione del film. I sudafricani mi detesteranno, se mi sentiranno, ma penso sia un bene che questo film sia stato realizzato da francesi e non da sudafricani.
Saartjie è un simbolo universale prima di essere un simbolo nazionale. La sua è una storia di disumanizzazione assolutamente terribile che purtroppo non conosce frontiere. Abdel si è documentato molto sul suo percorso, ma non ha voluto realizzare un film storico. Ritengo la sua scelta giudiziosa. Sono l’aspetto morale, filosofico e l’eco attuale del film che mi coinvolgono di più.

Che cosa è venuto a sapere sul personaggio di Caezar, durante le sue ricerche?

In realtà era un contadino abbastanza rozzo, illetterato, che viveva a Città del Capo.
Sua moglie si era ammalata durante la prima gravidanza e allora Saartjie si era occupata del bambino.
Un medico scozzese, per cui Caezar lavorava, gli propose di allestire uno spettacolo a Londra, con Saartjie, per fare fortuna. Loro accettarono e partirono per un viaggio che diventò un incubo. Nel film Caezar si rivela attirato tanto dai soldi che dal successo. Se fosse stato un musicista, Saartjie sarebbe stata il suo violino, il suo strumento.

Come è riuscito a incarnarlo senza gudicarlo?

Abdel non voleva dare nessun giudizio sui personaggi e questo approccio intellettuale dà al film tutta la sua forza. Per me è stato più complicato, ho avuto bisogno di discuterne a lungo con Abdel.
Durante la prima settimana in cui giravamo le scene a Piccadilly, mi interrogavo ancora su Caezar e sul mio modo di interpretarlo. Abdel ha risposto in modo semplicissimo ai miei dubbi, dicendomi: « Tu pensi troppo. Quello che fai va bene ». Alla fine mi sono lasciato andare, la sua fiducia era sufficiente.

Questa fiducia Abdellatif gliel’ha dimostrata in modo sorprendente, fin dal vostro primo incontro...

È stato miracoloso. All’inizio del 2009 il mio agente mi ha chiamato per dirmi che una casa di produzione francese cercava degli attori sudafricani che avevano la mia età e il mio profilo. Una quarantina di giorni dopo sono andato, per la prima volta della mia vita, a Parigi. Quando l’ho visto, Abdel mi ha guardato e si è limitato a sorridere. Ho saputo che il ruolo era per me...
Tutti i suoi film riflettono, secondo me, sull’identità francese e il suo rapporto con l’alterità, ma Venere Nera apre la strada a un approccio più universale. Fin dalla prima scena ho capito che Abdel girava secondo un metodo radicalmente diverso da quello hollywoodiano, pragmatico e con i tempi calcolati al cronometro, al quale ero abituato in Sudafrica. Per me è stata una rivelazione.

C’è anche questa coesione del gruppo, molto vicina allo spirito di una compagnia teatrale, che Abdellatif Kéchiche instaura ogni volta che gira un film...

Nella scena del tribunale, quando Caezar si difende dall’accusa di essere uno schiavista, presenta Saartjie come un’artista e il fatto che lei lo confermi a sua volta davanti ai giudici è allora più importante della sua condizione di donna libera. Si sente profondamente questa considerazione dell’artista, stando vicino ad Abdel.
Di fatto riunisce degli attori capaci di lavorare in una compagnia, e la miscela è affascinante.
Olivier è un attore molto preciso che riesce a controllare la propria energia, mentre io tendo piuttosto a esteriorizzare le mie emozioni. Tra noi si è prodotta una vera alchimia.
Quanto a Yahima, interpretava il suo primo ruolo. E che ruolo! Le riprese sono state difficili per lei. Noi le siamo stati molto vicini, ma lei ha dentro di sé una forza incredibile. Ha dato prova di una tenacia che le ha permesso di esplorare fino in fondo il personaggio di Sarah, di realizzarsi.

Come definirebbe questa singolare miscela di amore, affetto e dominazione, che unisce Saartjie a Caezar?

È complicato, perché la loro relazione si esprime a diversi livelli. Caezar si aspetta molto da lei, da un punto di vista « artistico ». La spinge a impegnarsi totalmente. Se sente una resistenza da parte di Saartjie, può diventare molto violento.
Al tempo stesso si prende cura di lei, un po’ come un padre con la figlia. Ma a modo suo, certo. Quando Caezar si ubriaca, la vede come una donna e perde il controllo dal punto di vista sessuale.
A quell’epoca era un comportamento abbastanza comune in Sudafrica, specialmente a Città del Capo, dove vivo io. Era quasi un insulto non avere questo tipo di rapporti. Caezar aveva quindi la possibilità di abusare di lei. Ma la sua ossessione era soprattutto fare soldi. Saartjie era il suo « biglietto » per un sogno di ascensione sociale.

Considera Caezar un regista?

Non nel senso strettamente artistico. Caezar non è neanche un uomo di teatro, non ne ha il gusto. In scena tratta Saartjie come farebbe un generale con un soldato: più che dirigerla, le dà degli ordini. Il suo scopo è soprattutto quello di mettere in valore se stesso.
Quando Saartjie sfugge al suo controllo, cantando e suonando con delicatezza, è furioso perché teme che gli rubi la scena. Fondamentalmente, se ne infischia della prestazione artistica di Saartjie e dell’effetto sensibile che ha sugli spettatori.

Caezar ritiene che l’artista non deve avere limiti quando si dà al suo pubblico. Condivide questa concezione del mestiere?

Questa percezione cambia a seconda degli artisti. Ognuno deve sapere se ha bisogno di limiti e a che livello li colloca.
Personalmente, penso che sia necessario ritrovarsi a tu per tu con i propri limiti per creare. Succede allora che la frontiera tra se stessi e il personaggio diventi molto sottile: in certi momenti Caezar ed io eravamo la stessa persona, se non altro per la sua condizione di straniero a Londra.
Anche io ero uno straniero a Parigi, partecipavo a delle riprese in cui tutti parlavano una lingua diversa dalla mia.

Questo film l’ha fatta riflettere sulla sua percezione dell’umanità?

Molto. In quanto sudafricano che vive in una cultura segnata dal rapporto tra classi e tra razze, questo film è più che mai interessante.
Lo ritengo un film potente e universale perché non fa del razzismo il suo tema principale.
Venere nera tratta della disumanità. Saartjie è stata umiliata da viva e ha continuato ad esserlo anche da morta. Non ha mai smesso di essere violata, fino a quando è stata riportata in Sudafrica.
Sicuramente è un film duro, ma spingere la gente a prendere in considerazione « l’altro » nella sua complessità, al di là delle apparenze, è fondamentale per la nostra evoluzione quotidiana di esseri umani.


Olivier Gourmet - Réaux

Come ha nutrito il personaggio di Réaux, le cui tracce storiche restano disperse?

In effetti sulla « Venere nera » ci sono molte informazioni. Ma quando ho digitato il nome di Réaux su Internet, non ho trovato quasi niente! Evidentemente Abdel aveva condotto un’indagine più approfondita. L’ho nutrito soprattutto d’istinto, di una naturalezza e un piacere costanti. Réaux è una persona intelligente, che analizza le situazioni e trae profitto dalle persone che gli stanno intorno, con tutto quello che ciò implica in termini di difetti e perversità.
Abdel non voleva assolutamente che fosse demonizzato o presentato come machiavellico.
Anzitutto perché nel suo rapporto con Saartjie c’erano affetto e rispetto. A modo suo, perché era immerso in un universo in cui non esisteva la coscienza dei limiti dell’altro. Il contesto di quell’epoca e del mondo delle fiere ambulanti parla per lui: a molte persone non erano mai stati insegnati i limiti tra il bene e il male, tra il rispetto e l’umiliazione.
E poi perché Abdel parla del personaggio in modo che ci si possa impossessare di lui con una certa libertà. Come attore questo approccio faceva al caso mio, perché ho sempre affrontato un nuovo ruolo approfondendo la sua parte di umanità.

Per lei Réaux è quindi un uomo senza nessun’altra barriera se non quella della propria soddisfazione?

Non dà prova di rimorsi, di rimpianti o di presa di coscienza, in nessun momento. In lui c’è qualcosa di istintivamente animale, evidentemente in modo sbagliato, perché quello che fa con Saartjie è spaventoso. Réaux è anche un regista che ha un ego smisurato e che cerca la popolarità, probabilmente più di Caezar.
L’interesse del film è anche quello di mostrare che Saartjie non è arrivata in Francia perché forzata da Caezar. Era consapevole che lui e Réaux la stavano manipolando, ma malgrado tutto ha continuato... È un film in cui i limiti di ognuno sono difficili da definire, come oggi è difficile distinguere tra tolleranza e intolleranza.

Nell’universo delle fiere, nell’atteggiamento stesso di Réaux, c’è una sensualità che non ci aspettavamo!

Ce n’era tantissima a quell’epoca, in quell’ambiente. Nel momento in cui c’è da bere, in cui c’è dell’alcol, si manifesta una certa sensualità. Per la gente delle fiere ambulanti è una cosa istintiva, senza pregiudizi: ci si strofina, ci si accarezza ed è naturale.
Réaux è un gaudente, mosso dalla ricerca di sensazioni, di eccitazione e dei soldi che non aveva. Probabilmente è per questo che non è consapevole di distruggere le persone con cui entra in contatto. Réaux è l’archetipo di questo universo, è un uomo carnale, quindi sensuale.
In questo mi sono riconosciuto, perché sono un attore che si esprime più attraverso il fisico che con le parole. Credo anche che Abdel abbia voluto scegliere degli attori inclini a un’interpretazione fisica.

Per un attore, interpretare un personaggio come Réaux, che si muove sempre nel torbido, ispira un certo piacere o mette piuttosto a disagio?

Dipende. Non ho trovato abbastanza elementi su di lui per farmi un’idea personale di quest’uomo o per essere tentato di giudicarlo. Ho immaginato Réaux come un uomo d’affari che ha una baracca che deve andare avanti!
Per esempio, non mi sono mai chiesto se avesse un problema con i neri o se fosse un macho e volesse dominare le donne. Sta allo spettatore farsi un’opinione. La linea direttrice del film è di spingere lo spettatore a interrogarsi sulla condizione di Saartjie e su ciò che ha permesso a certe persone di manipolarla. Non è di scioccare o di suscitare un qualunque voyeurismo.

Il voyeurismo è proprio lo scoglio che Abdellatif Kechiche ha evitato nelle due scene in cui Réaux esibisce Saartjie nei salotti parigini, prima come oggetto di desiderio e poi sessuale...

La scena del primo salotto borghese l’abbiamo ripetuta e girata per cinque notti, utilizzando due cineprese e facendo riprese non-stop che duravano cinquanta minuti. Eravamo come elettroni, liberi di improvvisare a partire dalle indicazioni della sceneggiatura.
È stato come gettarsi da una scogliera, lasciarsi cadere nel vuoto sperando di afferrare una cosa o un’altra nella caduta. Ed è quello che è successo, una sera dopo l’altra, procedendo a tastoni, trovando e alla fine limando. In un certo senso si arriva allo sfinimento affinché la verità emerga. Con Abdel più si vivono le cose e più queste cose arricchiscono, perché questi momenti uniscono tutti gli attori coinvolti.

Quando Réaux arringa i libertini del salotto Massaï, gridando loro « avvicinatevi e superate il vostro imbarazzo! », ci si sente chiamati in causa come spettatori e sfidati come esseri umani.

Per Réaux è forse un invito alla tolleranza, ma non ci ho riflettuto... Quello che ho fatto in questa scena, andare in giro con un sesso d’avorio, prendere i seni della donna che cavalca Yahima, non immaginavo di esserne capace. Abbiamo dovuto impegnarci tutti insieme, dare, dare, dare... Non è mai stata una sofferenza, perché c’era Abdel e nessuno doveva bruciarsi o distruggersi.
Questa scena riassume perfettamente l’argomento del film: interrogarci sul nostro senso della dignità umana. L’ho provato anche dal mio punto di vista di attore.
Anche improvvisando ho mantenuto una distanza, per non fare un numero da attore o perdere le intenzioni della scena. Così non ho avuto altro riferimento che le mie sensazioni di limite, che sono fisiche e intellettuali, non teoriche.
È anche una questione di pudore, di rispetto della propria partner, in questo caso di Yahima, a cui non avrei mai rischiato di fare del male. Tra lei e me lo scambio è sempre stato complice e gioioso: siamo andati entrambi « al fronte », fianco a fianco...
Abdel può abbattere le vostre più remote difese, perché vi mette a vostro agio e siete sicuri del suo rispetto, del suo ritegno.

Ritiene che l’essenza del mestiere di attore sia di rimettere in discussione, ad ogni nuovo film, i proprio limiti?

Penso che ogni artista ha il suo pudore, il suo senso dell’intimità, e che ci sono dei limiti che non bisogna oltrepassare più di tanto, perché facendolo non si aggiungerebbe niente al proprio talento. Tuttavia c’è qualcosa di vero nell’idea di sentirsi talmente distanti che si può mostrare tutto: in ogni caso è questa la convinzione di Réaux.

Secondo lei, oggi qual è l’eco del percorso di Saartjie Baartman?

Ovviamente la comprensione del mondo nel complesso è evoluta, ma questo non impedisce né l’intolleranza né l’umiliazione. Forse non ci sono più le fiere con i fenomeni da baraccone, non si comunica più con gli altri nello stesso modo, ma si mostrano altre cose, spuntano altri mostri e tutto questo passa attraverso Internet.
All’epoca del film, la gente aveva la « scusa » della scoperta scientifica, della stranezza, del mai visto. C’era una vera e propria curiosità per ciò che era sconosciuto, non proprio una paura. Oggi non c’è più qualcosa di veramente sconosciuto. Eppure trovo le nostre società ancora più perverse e tentate dal voyeurismo...

È importante che un film come Venere nera lasci un tale campo d’azione e d’interpretazione
allo spettatore?

È l’essenza stessa dei più grandi film: sono quelli che invitano lo spettatore a costruirsi la propria storia e a prendere posizione. Non bisogna prendere lo spettatore per mano, dimostrargli attraverso A + B che la morale è quella. L’essenza di questo film è una storia forte e un modo di avvicinarla abbastanza intelligente per lasciare lo spettatore libero di giudicare da sé.


FRANCOIS Marthouret - Georges Cuvier

Che cosa sapeva del destino di Saartjie e del ruolo avuto da Georges Cuvier?

Avevo solo un ricordo confuso del famoso calco che avevo visto esposto al Musée de l’homme. Non sapevo niente sui dettagli della vita di questa donna, né sul suo calvario fino al 2002, con la restituzione dei suoi resti al Sudafrica... Quanto a Cuvier, conoscevo solo il nome della sua strada.

Ha sviluppato una sua interpretazione della « relazione » che Cuvier ha avuto con Saartjie?

Sembrerebbe che Cuvier, al di là della sua ricerca scientifica, si sia in un certo senso innamorato del suo soggetto. Questo implica un eventuale disturbo che dà alla sua ricerca una dimensione al tempo stesso misteriosa e totalmente umana.
Il suo attaccamento a questa donna ha probabilmente rimesso in discussione alcune delle sue abitudini di scienziato. La sua ostinazione a voler provare la sua improbabile teoria sembra inverosimile da parte di un uomo intelligente. La disumanità di questa ossessione resta ancora un mistero per me.

Che cosa le ha ispirato il modo in cui il film guarda al personaggio di Saartjie?

Da come lei è raccontata nel film è molto intelligente, anche se resta in un certo senso innocente. È curiosa della vita e delle cose, senza lasciarsi ingannare dai rapporti di potere che gli vengono imposti.
Questa crudeltà del modo in cui si guarda l’altro, oggi esiste sotto innumerevoli forme. Anche se ormai abbiamo tutti gli elementi per sapere che è disumano, ci diciamo: « Che schifosa società ci portiamo dietro da secoli! »

Quale visione del cinema e dell’impegno artistico condivide con Abdellatif Kechiche?

Anche se ho fatto molto teatro, sono come una donnicciola rispetto al cinema. Quando Abdel, che conosco da molto tempo, mi ha proposto questo ruolo, sono stato felice come un debuttante.
Tanto più che amo i suoi film, la sua capacità di ascoltare, di cogliere tutti i dettagli viventi che fanno sì che un essere umano e la sua verità sensibile non siano riducibili.
Inoltre Abdel dà tempo agli attori e questo tempo è un’opportunità: l’opportunità di mettere in dubbio, di sentire o di contraddire. È un lusso al cinema, soprattutto per me che non vado bene prima di diciassette riprese. Perciò qui non ho scuse!

Permettere agli attori di costruire i propri personaggi, anche durante le riprese, è il
mezzo ideale per toccare quella « verità » di cui lei parla?

Direi che nell’approccio di Abdel c’è un rapporto artigianale che mi va benissimo. Sono rimasto affascinato dal suo rifiuto ostinato di privarsi delle sorprese della vita e di conseguenza della creazione. Si sente che ha lavorato immensamente sul soggetto e al tempo stesso lascia spazio a un certo empirismo.
Abdel lascia ad ognuno il compito di reinventare ciò che lui ha sognato, senza essere un direttore d’orchestra machiavellico che ti porta lì dove ha deciso di andare. Perché si tratta della vita e la vita non si compatta. La vita può prendere delle variazioni straordinarie sul volto di un attore, perciò perché privarsene?

Anche lei, come Abdellatif Kechiche, pensa che Cuvier e il suo comitato di scienziati
abbiano dato prova di « disonestà intellettuale »?

Quando si interpreta un personaggio si cerca di difenderlo. Quali che fossero le sue utopie, i suoi desideri confessati o no, non riesco a credere che Cuvier abbia dato prova di disonestà intellettuale.
A livello politico, per esempio, ha avuto una notevole capacità di adattamento ai diversi regimi. Si potrebbe pensare che l’abbia fatto per amore della scienza, ma risulta che ogni volta sia stato coperto di onori...
È complicata, l’onestà intellettuale. Ci sono molti esempi, nella politica odierna, in cui persone probabilmente oneste non si rendono conto che sono corrotti da un sistema che gli permette di non guardare più gli altri, ma solo la cerchia privilegiata in cui « nuotano ». E poiché pensano che la vita sia « nuotare », ritengono di « nuotare » e quindi di non essere disonesti.

Eccettuata l’ipotesi sentimentale, quali motivazioni potrebbero spiegare l’ostinazione
di Cuvier a provare le sue teorie aberranti?

Questa forma di opportunismo che ha adottato di fronte al potere corrispondeva forse ad un’idea reazionaria: se le sue teorie fossero state rimesse in discussione, tutto il sistema su cui si reggevano certi interessi di quella società sarebbero crollati.
Al contrario, se affermava che i bianchi erano superiori agli altri, questo legittimava tutte le colonizzazioni. Se ragionò così in tutta coscienza, si può parlare di crimine contro l’umanità.

Come si coglie l’ambiguità di un tale personaggio?

Con generosità. Ogni tentativo di critica deve essere fatto da altri, non dagli attori. Bisogna discutere in modo assolutamente obiettivo le teorie di Cuvier su Sarah, le sue approssimazioni e le sue aberrazioni.
Noi non avevamo tempo per sviluppare questo aspetto di Cuvier, ma personalmente mi sarebbe piaciuto riflettere sulla dimensione psicologica di un personaggio oggettivamente odioso.
Un uomo di quella qualità intellettuale come ha potuto restare incollato alle sue convinzioni? È una violenza incredibile alla logica intellettuale. Va addirittura contro i suoi stessi appunti. Che il motivo sia sociale, politico o sentimentale, resta il fatto che scientificamente è molto sorprendente.

Caezar e poi Réaux veicolano cinicamente l’idea che un attore deve dare tutto in nome dell’arte. È una concezione del mestiere che trova eco in lei?

Non mi prendo per un artista, ma l’idea artigianale che mi faccio di questo lavoro si nutre d’immaginazione e di una grande disponibilità. Dare tutto sembra generoso, ma la sfida è soprattutto quella di avvicinarsi a un pensiero o a un sentimento giusti, a un impegno sincero nell’immaginario che allora diventa realtà.
Bisogna tendere verso quel « vero » che ogni volta, da spettatori, ci sconvolge. Certi attori non sono fondamentalmente più « veri » di altri, ma sanno raccontarci la vita con degli strumenti di verità – il sentimento, l’immaginazione e l’emozione – che catturano la nostra emozione. Penso che l’impegno assoluto di cui parlano Caezar e Réaux sia questa esigenza di non imbrogliare.

Cuvier è una specie di regista per Saartjie?

Quando se ne impossessa, lei è già profondamente segnata dai suoi due precedenti « registi ». Inoltre Cuvier recupera il suo corpo per uno scopo molto diverso dagli altri.
La gloria scientifica non è più artistica dell’interesse personale di un magnaccia. Ma è in nome di una cosiddetta superiorità: quella della verità scientifica, l’avanguardia dell’umanità.
Dopo trenta anni di omaggi, le persone che hanno il potere possono avere l’impressione che il loro destino sia quello che sono. A quel punto la messa in scena o la strumentalizzazione degli altri diventa una tentazione costante. È quello che fa Cuvier nei confronti di Saartjie. Inoltre non la considera come una vera persona, anche se ha la prova e la sensazione personale opposta.

L’assenza di giudizio sui personaggi, voluta da Abdellatif Kechiche, costringe lo spettatore a coinvolgersi, a « guardare »...

La maggior parte dei personaggi restano opachi e questo costringe lo spettatore ad essere effettivamente attivo. È indice di rispetto verso il pubblico svelargli delle vite senza le istruzioni per l’uso, come farebbe un pittore o un musicista.
Secondo me una delle domande fondamentali che suscita il film, in particolare attraverso l’atteggiamento di Cuvier, è questa: « Come si può vedere, assaporare la realtà dell’altro eppure passare oltre restando fermi sui propri pregiudizi? » Me lo chiedo sempre...


LA VENUS HOTTENTOTE - PUNTI DI RIFERIMENTO STORICI

1770 (data stimata)
Data di nascita di Saartjie Baartman, originaria del popolo khoikhoi, nell’attuale Sudafrica, a quel tempo sotto la dominazione boera.

1770 - 1795
Al servizio dei coloni, come la sua famiglia, lavora nella fattoria di Hillegert Muller prima di essere venduta a Pieter Caezar, un commerciante di Città del Capo. Nel corso degli anni trova conforto nell’alcol. Fin dall’adolescenza la ragazza è affetta da steatopigia (ipertrofia delle natiche) e da longininfismo (piccole labbra eccessivamente sviluppate e sporgenti), sintomi che incuriosiranno e susciteranno grandi fantasie in Occidente.

1803
Saartjie diventa la serva del fratello di Pieter, Hendrick Caezar, e incontra Hendrick van Jong, un europeo senza un soldo di cui diventa la compagna. Dalla loro unione nasce un figlio che muore, come gli altri due che Saartjie ha avuto da uomini il cui nome è rimasto sconosciuto. Hendrick van Jong la lascia nel 1806 per tornare in Olanda.

1808
Hendrick Caezar, consapevole del potenziale esotico di Saartjie, la convince a fare commercio dei propri «ornamenti muliebri». Caezar si associa ad Alexander Dunlop, un chirurgo scozzese che ottiene loro un lasciapassare per uscire dal Sudafrica.

1810
Saartjie arriva in Inghilterra, dove oltre ad essere la serva di Dunlop e Caezar conquista il pubblico londinese con gli spettacoli popolari in cui incarna il personaggio di «Ottentotta addomesticata».

28 novembre 1810
In seguito a una denuncia dell’African Institution, che accusa Caezar di schiavismo, il più alto tribunale di diritto comune d’Inghilterra chiude il caso. Interrogata in particolar modo da alcuni ufficiali della polizia giudiziaria, Saartjie dichiara in quell’occasione: «Non ho nessuna denuncia da sporgere contro il mio padrone o coloro che mi mettono in mostra. Sono felicissima della mia situazione attuale e non ho nessun desiderio di tornare nel mio paese».

1811
Su iniziativa di Dunlop, Saartjie è battezzata nella cattedrale di Manchester. Agli occhi della legge ormai è Sarah Baartman.

1814
Sarah lascia Londra per andare a Parigi, probabilmente in compagnia di Caezar che nel frattempo deve aver cambiato nome. Quest’ultimo la fa alloggiare nelle vicinanze del Palais Royal, a quel tempo luogo di assoluta perdizione.
La «Venere ottentotta» seduce un nuovo pubblico e ispirerà perfino un’opéra comique che porta il suo nome.

1815
Passata sotto i l controllo di Réaux, un enigmatico bottegaio e ammaestratore di animali, Sarah diventa la «star» dei salotti dell’alta società parigina.

Marzo 1815
La «Venere ottentotta» attira la curiosità degli scienziati, tra cui quella dell’anatomista in voga Georges Cuvier.
Quest’ultimo ottiene da Réaux di poter esaminare Sarah, per tre giorni, nel suo Museo di anatomia all’interno del Jardin des Plantes. Sarah rifiuta allora categoricamente di scoprire il proprio sesso, nonostante le pressioni esercitate dagli scienziati.

29 dicembre 1815
Il calo della popolarità, le esibizioni in miseri music hall, lo scivolamento nella prostituzione e infine la rigidità dell’inverno parigino hanno ragione della sua salute. Sarah si spegne, probabilmente vittima di una polmonite e di una malattia venerea.

1817
Due anni dopo aver recuperato le spoglie di Sarah per sezionarle e prendere l’impronta del suo corpo, l’anatomista Georges Cuvier divulga il resoconto delle sue ricerche davanti all’Académie de médecine. Le sue conclusioni sono categoriche: «Le razze con il cranio depresso e schiacciato sono condannate ad un’eterna inferiorità ».

1817 - 1994
Il calco in gesso, lo scheletro e i barattoli contenenti gli organi genitali e il cervello di Sarah restano esposti al Musée de l’Homme, a Parigi, fino al 1976, quando vengono relegati nel deposito.

1994
Dopo la fine dell’apartheid in Sudafrica, i capi del popolo khoikhoi fanno intervenire Nelson Mandela affinché esiga da François Mitterrand la restituzione dei resti di Sarah. La richiesta si scontra con il rifiuto delle autorità e degli scienziati francesi in nome del patrimonio inalienabile del Musée de l’Homme e della scienza.

29 gennaio 2002
La proposta di legge del senatore Nicolas About, che si mobilita per il ritorno della «Venere ottentotta» nel suo paese, è adottata all’unanimità dai suoi pari. Il rapporto della Camera dei deputati del 30 gennaio spiega in particolare: «Il nostro paese deve in questo modo compiere il proprio dovere di memoria, in particolare rispetto alle vicende coloniali, e deve riconoscere, malgrado le difficoltà, gli errori che macchiano questo periodo della storia, in particolare per quanto riguarda la schiavitù, che ha costituito un crimine contro l’umanità».

9 agosto 2002
In occasione della giornata della donna in Sudafrica, i resti di Sarah Baartman sono inumati nella sua provincia natale di Città del Capo. La cerimonia si svolge in presenza del presidente Thabo Mbeki, di dignitari stranieri, di preti e di poeti


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